E’ il 22 luglio del 2011 e sono al Passo dello Stel-vio, uno dei valichi più alti e spettacolari delle Alpi. Qui si arriva da Bormio, e quindi dalla Lombardia, oppure da Trafoi, e quindi dall’Al-to Adige, percorrendo una strada che, dopo essere salita serpeggian-do fra verdi prati, svalica a 2.750 metri di quota, di fronte a un im-ponente anfiteatro di montagne sui cui fianchi stanno sospesi, quasi in precari equilibrio, i grandi ghiac-ciai. Tutti, viaggiatori e turisti, an-che quelli che vanno di fretta, fan-no sosta per affollare i negozi di souvenir e i chioschi in una piace-vole e colorata confusione, sottoli-neata dai versi striduli dei gracchi che saltellano in cerca di un boc-concino.
Proprio in quel momento, come un aliante, inavvertito dai più, indiffe-rente a tutto e tutti, arriva il gipeto, il più grande uccello d’Europa. Scivola basso sulla strada, sembra quasi sfiorare con le lunghe ali le rocce e l’erba; una marmotta fi-schia più forte delle altre. Vedo la grande testa del rapace muoversi per scrutare questa allegria di mo-to e autovetture, giacche a vento e caschi, biciclette e risate. Lo seguo con il binocolo mentre si staglia sulla parete bianca dell’Ortles fin-chè non scompare, con una lunga planata, dietro una roccia. Credo che si sia posato, a poche centi-naia di metri da me, ma non riesco a vederlo. Per me è stato uno spet-tacolo inatteso, anche se desidera-to, che mi ha lasciato piacevol-mente stupefatto. Ho inseguito i gipeti nei posti più scomodi del mondo, spesso a prezzo di faticosa scalate: nel cuore dell’Etiopia e della Corsica, sul monte Olimpo e in Asia Minore, e non mi sarei mai aspettato di vederlo così vicino e tranquillo, in mezzo a tanta gente, nelle mie Alpi.
E’ uno spettacolo che gli uomini appassionati della montagna e della sua unica fauna hanno dovuto attendere per cento anni, perché risale proprio ai primi anni del 1900 la scomparsa del gi-peto da tutta la catena alpina, a se-guito di persecuzioni feroci che hanno riempito le vetrine dei mu-sei dell’Europa e hanno privato queste montagne del fuoriclasse fra gli uccelli rapaci, l’avvoltoio che sembra un’aquila, e che sta al-le Alpi come il condor alle Ande. Posto all’anello terminale di una catena alimentare che prevede an-che la meticolosa eliminazione delle ossa e di quanto resta delle carcasse di animali selvatici e do-mestici morti per il freddo e per le valanghe in alta montagna, il gipe-to non aveva motivo di essere per-seguitato. Il suo secondo nome, avvoltoio degli agnelli, era solo un modo per metterlo in cattiva luce e legittimarne l’abbattimento che si è consumato per tanti anni finché il nobile rapace non è più riuscito a tenere il passo con i fucili e i ve-leni e ha lasciato, in silenzio, la grande catena montuosa. Questo animale non è tornato da solo, non ne avrebbe avuto la for-za, ma è tornato grazie all’impe-gno dei nipoti e dei pronipoti delle stesse persone che ne avevano re-gistrato l’estinzione un secolo fa e che hanno unito le loro energie e le loro competenze per dare concre-tezza a quello, che quaranta anni fa, sembrava solo un sogno. Rein-trodurre il gipeto nelle Alpi.
Per molti, scettici era un’operazione visionaria e inutilmente onerosa, e sostenevano che non avesse senso riportare nelle montagne europee un animale scomparso: in fondo ce ne erano tanti altri! Come dire che non avrebbe senso riportare la Gioconda in una sala del Louvre, dopo un restauro: ci sono tanti altri dipinti! Ecco, il gipeto è il capolavoro che mancava a queste montagne, mu-seo vivente e vitale della biodiver-sità e del futuro che tutti vorremmo per il nostro pianeta. E’ sono felice che a festeggiarlo, in Italia, sia sta-to soprattutto il Parco Nazionale dello Stelvio, dove oggi nidificano quattro coppie di gipeto. Un’area wilderness pressochè intatta, con-finante con il Parco Nazionale Svizzero dell’Engadina a formare, di fatto, un complesso protetto transfrontaliero divenuto protago-nista di entusiasmanti sfide della conservazione, di cui quella del gi-peto è sicuramente la più affasci-nante e incredibile.